..."Dire la verità,quello che non so,che cerco,che non ho ancora trovato.Solo così mi sento vivo."

sabato 30 novembre 2013

"Mud" (2013) di Jeff Nichols


“Mud”, ultimo lavoro del regista trentacinquenne Jeff Nichols, che con il precedente “Take Shelter” era riuscito a strappare gli elogi sia del pubblico che della critica, è l'ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che basta veramente poco per fare un bel film film, capace di arrivare al cuore di un vasto pubblico. La trama semplice e la regia essenziale, infatti, non tolgono certo punti ad una pellicola capace di coinvolgere e trasmettere molte emozioni. Ben lontano dalla pretenziosità di certo cinema d'autore, questo “Mud” è un film che con la sua semplicità, riesce ad essere estremamente intenso e non è certo poco, specialmente in questi ultimi tempi. Come avete potuto intuire in questi primi mesi di vita del blog, tendo a preferire film di tutt'altro stampo, eppure mi rimane difficile parlar male di una pellicola del genere. Di sicuro non ve la indicherò, come è stato fatto in altri blog, come uno dei possibili migliori film dell'anno, in quanto innegabilmente distante anni luce dal tipo di cinema e di storie che preferisco. Però, allo stesso tempo, è difficile esimersi dal consigliarlo.

Come sono solito fare, ne parlerò partendo dalle emozioni che mi ha lasciato. Ecco, a livello di sensazione a termine della visione, mi ha un po' ricordato ciò che provai quando vidi diversi mesi fa ormai, “Noi siamo infinito”. Sono convinto che chi ha apprezzato il film di Stephen Chbosky, sicuramente non rimarrà deluso da questa pellicola. Anche questo, infatti, proprio come “Noi Siamo Infinito” è una bella storia di amicizia, di amore, di sogni, di aspettative, ma anche di disillusione, che si configura come un classico “film di formazione”, in cui è messa in primo piano la crescita del protagonista Ellis, quattordicenne alle prese con le prime difficoltà della vita: il trasloco obbligato, l'imminente divorzio dei genitori, le prime delusioni amorose, qualche scazzottata. Fin qui sarebbe la stessa storia, vista e rivista, se non fosse per la presenza dell'altro protagonista, il misterioso “Mud”, interpretato alla grande da uno straordinario Matthew McConaughey che si sta confermando come uno degli attori maggiormente in crescita nell'ultimo periodo.
E' proprio lui, il personaggio che da il nome alla pellicola, a conferire spessore a tutto il film. Ma chi è questo “Mud”? Lo scopriamo piano piano andando avanti con la narrazione. All'inizio del film è soltanto un uomo senza una precisa identità che i due ragazzini, Ellis e Neckbone, incontrano su di un isola in mezzo al fiume Mississipi. Uno strano tipo che vive su di una barca rimasta incastrata tra i rami di un albero a seguito di un alluvione. Per Neckbone è solo un barbone, un uomo pericoloso, per Ellis, invece, diventa subito un amico... Di quelli a cui sin dall'inizio dai il massimo della fiducia, senza porti troppe domande. Di sicuro è molto ingenuo Ellis, perché non sa con chi ha a che fare, ma la sua ingenuità nell'offrirsi subito di aiutare il misterioso Mud è uno degli elementi migliori del film.



Mud racconta ai ragazzini che sta cercando di rimettere in mare quella barca, per fuggire con la donna che ama. In realtà è in fuga dalla legge: ha ucciso un uomo, proprio per quella donna ed ora lo stanno cercando sia la polizia per arrestarlo, sia i familiari della vittima per vendicarsi...
Il bello, però, è che anche quando scoprono la verità i due ragazzini non si tirano indietro. Specialmente Ellis, continua a credere nella prima versione della storia e lo fa perché crede nell'amore, l'amore ideale, salvo poi doversi scontrare con la realtà dei fatti e capire che la vera essenza dell'amore, è quella di un sentimento sopravvalutato, corrotto, effimero, ma dovrà scontrarcisi piano piano, restare ferito... cadere nel fango.
In mezzo a tutto ciò il “bugiardo” Mud, sempre sporco, con quella sua unica camicetta bianca sgualcita, la pistola infilata nei pantaloni, i serpenti tatuati sull'avambraccio, e i chiodi a forma di croce sulla suola degli stivali in pelle portafortuna, diventa paradossalmente per i due amici una sorta di maestro di vita. Altro elemento spettacolare, nella sua contraddittorietà. Due ragazzini sulla via della maturazione e della crescita personale, "istruiti" da un uomo che in realtà, quella maturità non l'ha mai raggiunta, restando sempre un ragazzino, uno spirito libero, selvaggio, ingenuo anche lui, persino testardo. Un sognatore ad occhi aperti che, però, come nella celebre canzone dei Pink Floyd non ha sentito lo sparo di partenza ed è sempre lì fermo mentre gli altri hanno già cominciato a correre. Uno che insegue il sole e quello tramonta e poi risorge dietro di lui. Eppure malgrado questo, tutto funziona, risultando estremamente credibile ed emozionando ad ogni scena in cui i tre sono insieme. Poco importa se Mud sia o no un bugiardo, un criminale che nel libro di istruzioni della vita non ci ha mai capito niente. Quel che conta è ciò che Mud significa per Ellis... ciò che ha fatto, magari senza nemmeno volerlo, per lui.
E' bello vedere come un film che ti mostra tanta amarezza (anche grazie ai paesaggi desolati, poveri e sporchi del profondo sud degli Stati Uniti), quell'amarezza propria delle vite ai margini della società, l'amarezza di un uomo solo, un fallito che continua ingenuamente ad essere sognatore, l'amarezza di dei ragazzini lasciati a se stessi, riesca invece nel complesso a lasciarti in bocca un sapore dolce, piacevole.
Qualche metafora qua e là: il fiume, il fango, la ruggine,  il morso dei serpenti (stesso destino toccato a Mud prima ed Ellis poi), le perle che bisogna andare a cercare sul fondo del mare... eppure “Mud” non è essenzialmente un film poetico, è un film sincero, realistico. Tutto qua: solo la dura vita ed una bella storia, quella di persone semplici, come tante, alle prese con le loro debolezze. Bellissimo il finale, senza una risoluzione precisa, ben distante dai “lieti fini” a cui siamo abituati. Non c'è una morale, solo un bel film, magari non perfetto, magari non il migliore dell'anno, ma pur sempre un gran bel film. Forse avrebbe potuto avere le potenzialità per essere davvero straordinario, se solo avesse osato di più, se fosse stato un po' più coraggioso e spietato, ma personalmente...a questo giro, mi può bastare anche così. Io ve lo consiglio, fate voi.

Menzione particolare per l'interpretazione di tutti gli attori, non solo del già elogiato McConaughey, ma anche dei due ragazzini, capaci, malgrado la giovanissima età, di recitare soltanto con gli sguardi come sanno fare i grandi attori.

* data di uscita italiana: 5 dicembre.


Voto: 7,5





 

domenica 24 novembre 2013

"L'ora del lupo" (1968) di Ingmar Bergman


<<Un tempo la notte era fatta per dormire...già, sonni calmi e profondi e svegliarsi poi...senza terrori. Da molte sere siamo svegli fino all'alba, ma questa è l'ora peggiore. Sai come si chiama? Il popolo la chiama l'Ora del lupo, è l'ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono, è l'ora in cui gli incubi ci assalgono e se restiamo svegli...>>
<<Abbiamo paura.>>

Oscurità completa. Soltanto qualche lampo di luce ogni tanto, poi soltanto buio, il buio della mente. Non riesci più a dormire, non riesci più a vivere. La tua è una battaglia continua, incessabile, contro il tuo passato, i tuoi rimorsi, contro il tuo futuro, le tue paure. Un vortice da cui non puoi uscire... Alma ti da la mano, prova a tirarti fuori, a salvarti, ma tu la tiri troppo forte verso di te, lei non ce la fa a resistere... adesso quel vortice risucchia anche lei...




Il sonno della ragione genera mostri...

è esattamente quello che accade in quest'opera di Ingmar Bergman. Film oscuro, onirico, inquietante, che si presenta agli occhi dello spettatore come un terrificante viaggio negli angoli più bui della mente umana, un viaggio assolutamente senza ritorno. Un film concepito come una composizione musicale, che certamente più che a raccontare una storia, mira a suscitare emozioni. La trama, infatti, è decisamente esile: è semplicemente la storia di un pittore, Johan Borg (Max Von Sydow), trasferitosi su di un'isola assieme alla moglie Alma (Liv Ullmann), in fuga dai propri incubi, dai propri fantasmi e dalle colpe del passato. E' quindi un ritratto di depressione e follia.

Nella prima parte del film vediamo il protagonista raccontare alla moglie le proprie ossessioni, mentre le mostra gli schizzi raffiguranti una serie di personaggi bizzarri che popolano i suoi incubi... I due sono poi invitati ad una festa nel castello del barone Von Merkens padrone dell'isola ed a cena la moglie scopre che gli altri invitati sono esattamente gli stessi bizzarri ed inquietanti personaggi che le ha mostrato il marito e quel castello non è altro che l'inconscio di Johan, in cui anch'essa si trova adesso a vagare. Sono maschere, non individui, fantasmi, non persone...

Vediamo poi l'amante del pittore e ci assale il dubbio se essa esista veramente o no, se sia un ricordo del passato, oppure una delle tante oscure presenze dell'inconscio del protagonista. Così assaliti da questi dubbi, da questo senso di incomprensione e straniamento arriviamo velocemente alla seconda parte della pellicola. Solo a questo punto, dopo quasi metà film compare il titolo: l'Ora del lupo. E siamo così proiettati nella camera da letto dei due protagonisti, in mezzo al buio completo smorzato soltanto dalla luce di un fiammifero.

<<Questo silenzio opprime la mente, sembra una cosa irreale, neanche il mare si sente, una pace tremenda...non è vero?>>
<<Stai piangendo?>>
<<Non piango, penso al bambino...e a questa silenziosa oscurità, come se non dovesse più far giorno...>>

Da lì in avanti assistiamo così all'inarrestabile sprofondare di Johan nella propria follia E precipitando trascina con sé la moglie Alma, anch'essa ormai preda delle sue stesse paure ed ossessioni. E non c'è via di scampo, se non la morte...

<<Non capisco più niente, non so più che cosa sei, ho solo paura...credi che voglia restare qui e forse finire uccisa, credi davvero che ci tenga a vederti correre dietro quella donna e parlare con i fantasmi?>>


L'approccio al film non è certo semplice, ma andando avanti, si rimane pienamente coinvolti e difficilmente riusciamo a togliere gli occhi dallo schermo, pur sentendoci il cuore in palpitazione. L'uso eccellente delle musiche, dei vari suoni e rumori e di uno splendido bianco e nero (dove domina il nero e per il bianco c'è davvero poco spazio), permettono al regista di creare un crescendo di tensione, che culmina con gli straordinari venti minuti finali, che sono la chiara dimostrazione del suo estro visionario, della sua innegabile maestria nel tradurre le emozioni in immagini. Malgrado le atmosfere in bilico tra l'horror e il thriller, però, il film è ben altro e si inserisce benissimo nella filmografia del maestro svedese.
Le tematiche, infatti, sono le stesse di molti altri film: la fragilità dell'uomo, la sua difficoltà nel mettere a freno le pulsioni dell'inconscio, l'incomunicabilità tra due amanti, l'amore non più corrisposto, la solitudine, la condizione degli artisti che più di ogni altro tendono ad emarginarsi e sprofondare nella depressione. Pochi registi, sono stati così abili come Bergman nel raccontare le debolezze dell'animo umano. Qui però, il maestro svedese, compie un passo ulteriore, sconfinando nei territori del surrealismo, contornando le sue riflessioni filosofiche con immagini di straordinaria e disarmante potenza visiva. Girato subito dopo il capolavoro “Persona”, questo film è probabilmente la sua opera più sperimentale, atipica, decisamente all'avanguardia per il tempo in cui è stata realizzata ed ancora oggi, a più di quarant'anni di distanza, mantiene intatta la propria modernità. Non capisco pertanto come possa essere considerata un'opera minore...

Cosa manca, mi chiedo, ad un film del genere? Perfetto nella forma (grazie alla splendida fotografia di Sven Nykvist, in grado di rendere le ombre ancora più inquietanti ), ed allo stesso tempo decisamente denso di contenuti e spunti di riflessione.
Pertanto, rapportandosi agli anni in cui è stato girato ed ai mezzi a disposizione a quel tempo, penso che ben pochi registi sarebbero riusciti a descrivere così bene in immagini l'effetto devastante che può avere la mente sull'uomo. Guardare questo film è come ritrovarsi a correre dentro un tunnel buio, in fuga dalle nostre peggiori paure...senza mai vedere la luce.


<<Grazie a voi io ho raggiunto il limite...lo specchio si è spezzato, ma... cosa riflettono i frantumi?>>




domenica 17 novembre 2013

"Il Giardino di cemento" (1993) di Andrew Birkin


Non so perché decisi a suo tempo di procurarmi questo film ed ancora meno so cosa mi abbia spinto a vederlo adesso, eppure dopo la visione mi sento assolutamente di consigliarlo, spendendoci sopra qualche parola. Vincitore dell'Orso d'argento a Berlino nel 1993, tratto dall'omonimo romanzo di Ian McEwan (che non ho letto, quindi non so bene giudicare la qualità del'adattamento), “Il giardino di cemento” è un film oggi quasi dimenticato. Eppure io penso che non me lo dimenticherò facilmente...

Film doloroso ed amorale eppure poetico ed intenso. Uno schiaffo alla morale comune, che forse nel 1993 faceva ancora più male di oggi, perché non eravamo ancora abituati a vedere un certo tipo di cose sullo schermo: incesto tra ragazzini, mamme morte tenute in cantina, bambini di sei anni che amano travestirsi da femmina... Sta di fatto che, con tutti i suoi limiti, che non sono pochi, “Il giardino di cemento” appare comunque, anche oggi, a distanza di vent'anni, una pellicola coraggiosa, raffinata, delicata, forse semplice nella forma, nella sua regia essenziale, ma non certo altrettanto semplice e delicata nei contenuti. Anzi!

Anche perché fin dall'inizio ci troviamo a fare i conti con la morte. E' infatti la storia di quattro fratelli, (il protagonista Jack, quindicenne, la sorella Julie di poco più grande di lui, la sorellina più piccola di 11 anni ed il fratello minore Tom di sette anni), i quali nel giro di poco tempo restano senza i genitori. Il padre muore probabilmente per un infarto mentre sta spargendo il cemento nel cortile, proprio nelle prime immagini del film, mentre Jack in preda alle irrefrenabili pulsioni sessuali tipiche di un adolescente si sta masturbando al gabinetto. La madre, invece, costretta a letto dalla malattia, muore nel sonno dopo pochi giorni. A quel punto, per paura di essere separati ed affidati ciascuno ai servizi sociali i quattro fratelli decidono di non comunicare alle autorità la morte della madre. Così, dopo averla avvolta in una coperta, la trascinano dentro un vecchio baule di metallo, in cantina, e la ricoprono di cemento. Una scelta insensata, assurda, oppure naturale? Un atto di coraggio oppure di paura? Qualunque cosa sia, un gesto che può apparire decisamente disturbante. Come tutte quelle scene in cui pressappoco scopriamo come Jack sia fortemente attratto dalla sorella che di certo, dal canto suo, non fa niente per sfuggire alle sue attenzioni ed anzi, con finta ingenuità, lo provoca. Eppure le scene tra i due, interpretati veramente bene da dei giovanissimi Andrew Robertson e Charlotte Gainsbourg, sono magnifiche, nella loro leggerezza. Ed è proprio la prova della Gainsbourg ad elevarsi per intensità. Il suo è un personaggio strano, indecifrabile, sempre ambiguo nel modo in cui si relaziona con il fratello, ma proprio in ciò sta il suo fascino. Per non parlare del più piccolo Tom che si sente una femmina e gioca ad interpretare la sorella Julie con tanto di gonna e parrucca gialla. Ma non c'è ricerca fine a se stessa della provocazione e mai si scende nel ridicolo, anche se il rischio è sempre in agguato...

Così il film diventa quasi un piccolo poetico inno alla libertà, un invito a svincolarsi dalle convenzioni sociali, da ogni forma di pregiudizio. Un elogio della “anormalità”. I fratelli prendono in mano la loro vita, gestendola come vogliono, senza più costrizioni. Sappiamo sin dall'inizio che quella libertà non durerà, è solo precaria, perché prima o poi verranno scoperti e separati tra loro, per questo per tutta la durata del film si prova un certo senso di amarezza che viene però offuscata da quella delicatezza, che è marchio distintivo e preponderante dell'opera.

Insomma, “Il giardino di cemento” è si un film che fa storcere il naso, distogliere lo sguardo, ma non si ha l'impressione che l'intento sia soltanto quello di provocare. Ci si riesce ad emozionare, forse commuovere. Come la scena in cui Jack ed il piccolo Tom, nudi nel lettino del bambino, si lasciano andare ai ricordi dell'infanzia, dei genitori, che ci appaiono sbiaditi, in toni di grigio...
E' vero: per tutta la durata del film, ci troviamo in mezzo alla desolazione, alla sporcizia, alla polvere, al puzzo del corpo della madre in putrefazione, ma allo stesso tempo, dopo un inizio che forse fa un po' troppa fatica ad ingranare, il film diviene coinvolgente e si raggiungono dei notevoli sprazzi di poesia, che credetemi, valgono il tempo dedicato alla visione. 

Voto: un 7.5, ma dal sapore particolare e difficilmente dimenticabile.


giovedì 7 novembre 2013

"L'Eclisse" di Michelangelo Antonioni (1962)

Chissà perché si fanno tante domande...io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene, o forse non bisogna volersi bene


Ho sempre pensato che la potenza del cinema risieda essenzialmente nel suo racchiudere in sé varie forme di arte. Il cinema è innanzitutto arte figurativa, pittura, fotografia, capace di trasmettere emozioni soltanto attraverso le immagini...Ma è anche musica, capace di arrivare al cuore tramite le melodie, i suoni... Ed è filosofia, letteratura, capace di scuotere anima e mente con parole. Questa essenza del cinema, questa sua natura così poliedrica, questa sua completezza, emergono in maniera preponderante da un film come “L'eclisse” di Michelangelo Antonioni. Si, questo film è l'essenza del cinema. Punto.

Un susseguirsi di immagini meravigliose, una più emozionante dell'altra. Dipinti in bianco, nero e grigio, capaci da soli di dire qualcosa. E poi i suoni...il rumore dei tacchi a spillo di Vittoria, mentre si aggira silenziosa e lenta nel suo appartamento, oppure mentre cammina senza meta per strade pressoché deserte, in mezzo agli alberi, ad una natura spoglia, indifesa nei confronti di una società proiettata verso il progresso industriale (siamo nell'Italia del boom economico). Il rumore del vento a fare da sottofondo...interrotto saltuariamente dal rombo di una macchina che attraversa l'incrocio... e poi di nuovo silenzio. Ed a rompere l'incantesimo, poi, il marasma del palazzo della borsa, le urla degli agenti finanziari.

I dialoghi, pochi, ma intensi... sono frecce che arrivano dritte al cuore, implacabili. La recitazione monumentale di Monica Vitti, che reggendosi tutto il film sulle spalle, è capace di trasmettere sempre quel senso di vuoto esistenziale, quella malinconia perenne, quella tristezza di fondo difficile da celare. Ed è capace di mostrarcela, in maniera sincera, più che credibile, anche quando sorride, anche quando si lascia andare a risate liberatorie insieme a Piero, mentre lo bacia, mentre gli parla, mentre gli fa capire che vorrebbe amarlo, ma non ne è capace.



La locandina del film farebbe pensare ad una storia di amore. In realtà è una storia di assenza dell'amore. L'amore se c'è mai stato, adesso non c'è più. Si riparte quindi da dove finisce “La notte”, dalle tristi parole rivolte da Jeanne Moreau a Marcello Mastroianni in uno dei finali più belli della storia del cinema: Se stasera ho voglia di morire è perché non ti amo più. Sono disperata per questo. Vorrei essere già vecchia per averti dedicato tutta la mia vita. Vorrei non esister più perché non posso più amarti.” 
 

L'eclisse” riparte proprio da qui, da un'amore finito. La protagonista Vittoria (Monica Vitti), non ce la fa più...deve chiudere la propria storia con il fidanzato e provare a guardare avanti. Ma il suo, come ho già detto, altro non è che un vagare senza meta. Il suo desiderio di evasione appare evidente, la notte in cui viene invitata a casa di una vicina di casa, una donna nata in Kenya ed adesso trasferitasi in Italia. Nella scena della danza di Vittoria, truccata da negra, con tanto di cerchi dorati al collo, emerge in maniera preponderante quella sua voglia di fuggire. Da qualche altra parte, non importa, basta fuggire dal grigiore quotidiano della sua vita. “Forse laggiù si pensa meno alla felicità. Le cose devono andare avanti per conto loro. Qui invece è tutto una gran fatica. Anche l'amore.”

Segue la sequenza del viaggio in aereo, in cui ancora una volta il primo piano sulla Vitti, ci mostra degli occhi sognanti, ma allo stesso tempo velati di malinconia. Nella seconda parte del film, invece, al palazzo della borsa, dove la madre ha perso un sacco di soldi, incontra un giovante agente finanziario (Alain Delon), un rampollo dell'alta borghesia romana, proiettato verso una carriera di successo. Insensibile, interessato soltanto al denaro. Piero è tutto ciò che non è Vittoria: spavaldo, sicuro di sé, orgoglioso, ambizioso, donnaiolo. I due cominciano a frequentarsi, stanno bene insieme, malgrado siano completamente diversi, ma è come se ci fosse un muro tra i due. Non c'è empatia, non c'è possibilità di comunicazione. C'è spazio soltanto per l'insoddisfazione, la noia. Vittoria vorrebbe innamorarsi, di nuovo, probabilmente per dimenticare la storia da cui è appena uscita, forse per svagarsi, forse per noia, forse per paura... Non lo sappiamo, perché nemmeno lei lo sa.

Si alternano così momenti molti intimi in cui sembra esserci più coinvolgimento, ad altri in cui quel muro di incomunicabilità tra i due sembra ancora più invalicabile, in cui appare evidente la mancanza di passione, l'assenza di trasporto emotivo, l'aridità dei sentimenti. Ed in questo i paesaggi del film, le stanze, il modo in cui sono arredate, i palazzi tutti uguali, bianchi, tristi...bastano a trasmettere quella freddezza, quel gelo che è il gelo dell'anima, più che della società.

Chissà perché si fanno tante domande – si chiede Vittoria – io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. O forse non bisogna volersi bene.”

Quel che si respira, quindi, è un'atmosfera di piena alienazione, quasi apocalittica, senz'altro cupa, priva di colore. Per questo è un film perfetto nel suo bianco e nero, nei toni di grigio così esplicativi. Non avrebbe potuto essere in altro modo. Così emerge soltanto la fragilità dell'uomo nella società moderna, la freddezza dei sentimenti, il senso di vuoto. Bastano i silenzi e le immagini a raccontarli. Eppure, in tutta questa sua freddezza è un film capace di arrivare al cuore. Ah, se solo avessi le parole per descriverlo. E' come se dallo schermo uscissero delle onde, invisibili, inascoltabili, che però riescono ad attraversarci. Un film dove domina il niente, che però non mi ha mai minimamente annoiato ed anzi, nel suo essere gelido, è riuscito a trasmettermi calore più della stragrande maggioranza dei film che mi sia capitato di vedere. Un film sincero...capace di mantenere intatto il suo fascino e la sua forza espressiva a più di cinquant'anni di distanza da quando è stato proiettato per la prima volta in sala. Menzione a parte merita il finale, misterioso e cupo, in cui i protagonisti escono di scena, in cui a quell'incrocio dove si erano dati appuntamento nessuno dei due si presenta, mentre sulla città cala il buio (Perenne o è solo un'eclisse?) beh... è davvero meraviglioso.

 
 
 



Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...